Kasparhauser
come si accede al pensiero





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2014


Rivista di cultura filosofica


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Chaosmografie III. Escatologia
di Jacopo Valli






Note a margine della Fine


The end crowns all
(William Shakespeare)

In girum imus nocte et consumimur igni

La fine del mondo è, eventualmente, eminentemente la fine del mio mondo — non idealisticamte inteso —, che sono [ontologicamente, essa è sempre la mia stessa fine; eppure, per batailliano Principio di insufficienza, tale fine, che nullificazione non è (la fine è senza fine; l’Apocalisse è senza Apocalisse: così è in Derrida; e apocalittico, disvelatorio è forse questo esatto paradosso cesorio e affrancante), è sempre modalmente parziale; ed è solo per mere ragioni di [almeno provvisoria] dipendenza fisiologica, organica, che la fine del mondo — ora inteso non come insieme degli enti ma come terrestre pianeta — decreta la mia stessa fine (così non sarebbe se potessi vivere su Plutone, che pure ontologicamente, extramodalmente, sono).

La fine accomuna e non risolve in comunione: sebbene la mia fine sia già da sempre, monisticamente, anche la fine dell’altro, essa è tale in riferimento a me, modale monade deleuziana non facente parte di o contenente un mondo, ma coincidente col mondo, che È (Ni-ente) senza essere Cosa (cosicché pure defunge qualsivoglia costituzione volontaristico-rappresentativa conservatrice, attuale o potenziale, mondana o exotericamente giovannea).

Per farla finita col Cristo più famoso: già da sempre, «Io sono la via, la verità e la vita». Ma la verità e la vita che sono, sono, È e non è Cosa ma Ni-ente, 0 = n ; cosicché io sono indivisibilmente Α e Ω. E sono Padre e Figlio, senza essere Padre o Figlio; senza avere Padre o Figlio. E sono la mia Immacolata Concezione. E sono mia Madre senza figli e suo figlio senza madre. E sono la mia Signora. E la via è senza via. E nessuno giunge al Padre attraverso di me, ché non v’è Padre, che già da sempre sono senz’esserlo, da raggiungere: e per ognuno ed ogni cosa è lo stesso: Altro non c’è [pourparler: in barba pure ai recuperi teleologici d’un Teilhard de Chardin].

Sono:

Carne solare: già anche lunare. Ra che è Horus al suo stesso orizzonte. E pur aureo [ardente] albeggiare. Sonoro silenzio d’Arpocrate — cageano 4’:33’’.
Ra-Hoor-Khuit e [è] Hoor-Paar-Kraat ≡ Heru-Ra-Ha.

Diderot rammenta che «noi siamo noi, sempre noi, e mai gli stessi neanche per un minuto». Necessario, ma insufficiente: siam sempre noi anche ad essere gli altri noi: così al di là del Principio di Non Contraddizione; nonché psicofisiologicamente (di nuovo ontologicamente, quindi), in accordo con Rimbaud non meno che con Montaigne, col cripto-risentito Schopenhauer non meno che con Nietzsche, col Matisse ritrattista non meno che con mistici [speculativi] come Ma gCig, Huxley, Burroughs, o con Jarry, o con Duchamp/Rrose Sélavy. E siam sempre noi anche in riferimento al pensiero che abbiamo degli altri e delle altre cose; pensiero che è affare materiale del corpo che siamo e che pertanto coincide extramodalmente coi corpi altrui (e finanche col loro pensare emergente) e colle altre cose senza il polemico confronto con le quali — necessaria scissione fizionale — nemmen potrebbe darsi, né giungere a comprensione di sé, del corpo, dell’Essere, finalmente: non-dualisticamente (rammenta Caterina Valdrè che, a differenza dei devoti e degli asceti ancora in lotta col mondo, «coloro che hanno la conoscenza, i perfetti, nel loro distacco totale ricuperano anche tutte le creature [-] e gli stessi elogi che ne vengono». Ma le creature sono invero increate; ed il distacco è non solo finale dia-bolicamente riconnettivo distacco anche dal distacco medesimo: esso è quindi distaccamento da ciò che divide da costringendo in una rappresentazione sim-bolica, ossia dia-bolica esattamente rispetto a : essenza della Religione — almeno exotericamente/post-filosoficamente intesa — è questo, anche nelle parole di Agamben: «Ogni separazione conserva in sé un nucleo genuinamente religioso».
Nondimeno ed affinemente: se Sacro è l’irrimediabilmente separato/separante e Santo colui che è separato, la separazione dell’Empio da ciò che separa non si dà come santità per empietà, e forse pure per più radicale santità, se santo è comunemente colui che in ultimo permane, seppur solitario, proteso verso l’Altro sacro dia-bolico divisore sim-bolico?
Antidialetticamente: il Profano è tale rispetto al sacro, nonché sacro rispetto al sacro visto dalla di esso [ora profana] immanenza; nondimeno, il sim-bolico è formalisticamente dia-bolico rispetto al potenziale molteplice immanente non scisso dalla duale dicotomia forma/sostanza procedente dal Nichilismo ontologico; il dia-bolico, già anche sim-bolico nei riguardi di tale monistica immanenza).
«La métaphysique, que l’on peut considérer comme le règne de l’amour du fini, asservit l’exercice de la pensée»
(Jean-Michel Le Lannou)

«La structure de la pensée est [...] determinée par la structure de l’être qu’elle révèle»
(Alexandre Kojève)
Preoccuparsi per la fine è primariamente occuparsi della fine, e della propria fine [qui: escatologia, ontologia, cosmologia e teleologia convergono].

La fine del mondo (ancora: della Terra) decide la fine d’ogni individuo che abbia bisogno di essa per produrre attivamente la propria esistenza, il proprio vivere/morire.

Dire: «Se finisce il mondo, meglio: crepiamo tutti assieme!», è affermare miope codardia non denunciante il naturalmente costitutivo egoismo sotteso a simili dichiarazioni esalanti miasma d’arrogante autolimitazione umanistica e d’ignoranza speculativa circa il fatto che non sia sentimentalmente esperibile il post-mortem; che il sentire (individuale) sia continuo ed indiviso dacché afferibile al corpo che s’è, malgrado le cartesiane dipartizioni debitrici del pensiero platonico; che, con Blanchot, il pensiero del dolore altrui non sia di consolazione, ché ognuno soffre per sé (solitariamente).
Inoltre: non si danno sentimenti al di fuor del linguaggio, ed il sentimentale patisce il societario, mentre il sentire è indefinito e mascherato e tanto più denso e complesso (anche fisicamente: questo è ciò che, accordatamente al pur residualmente ametrope pensiero adorniano, intendo per spirituale; ossia, nulla di spiritualista, spiritista, variamente dualista e recuperante carnalità in Altrove ideali, magari con la scusa della mortificazione, sovente inelegante: il mistico rinunciante ed il dionisiaco non differiscono che proceduralmente: si tratta di due modalità del consumo, del consumarsi; dell’ascesi, quindi; ovvero, dell’esercizio, dell’esercitarsi. Secondo Bataille, all’Estasi, ch’è senza Oggetto, non si accede che «dans la perspective de la mort, de ce qui nous détruit»: è l’How to destroy angels di John Balance; dove anche la Terra che pure s’è è un Angelo, richiamando il Corbin rievocante l’Avestā — ciò sia detto ammentando ch’ogni atto sia mosso da desiderio, ossia, da intima tensione estetica: tanto il piacer confesso, quanto quello inconfessato e travestito da mortificazione, o addirittura da umiltà modesta e identificabile con l’umiliazione pur scansata da una Weil) quanto meno è castrato dalla tipizzazione linguistica e dalle sue consecuzioni immaginarie ed immaginali (e quest’ultime non posson essere innocue, ancora accordandoci a Corbin) e, di lì, estetico/etiche.

Scrive Freud in Jenseits des Lustprinzips: «Per Hartmann la morte non è caratterizzata dalla comparsa di un “cadavere” (di una sostanza vivente morta), egli la definisce invece come la “conclusione dello sviluppo individuale”. In questo senso anche i protozoi sono mortali».

Ora, questo processo non avviene nel Nulla e dal Nulla, verso il Nulla: per poter produrre la propria esistenza, ovvero, per poter morire, ci si serve del mondo, ancorché monisticamente con esso concidendo. Ancora: s’è il proprio usarsi e consumarsi.
Performativamente, tale condizione non ha riguardo dell’individuo mistico: egli perde il mondo e rinuncia ad essere di questo o d’altri mondi (per perdersi senza riscatto e recapito), accede alla dimensione estatica (alla coscienza attiva di quel formale/sostanziale Ni-ente eternalmente transeunte che è) attraverso la trasformativa distruzione; per mezzo del consumo di , del fuoco di Kālī, che è Śiva e gli altri dèi ch’egli pur è, se, con Dion Fortune, «all gods are one God» (consumo somatico anche nell’accedere al pensiero del mondo attraverso il mondo medesimo, se, con Merleau-Ponty, «la pensée [...] n’existe pas hors du monde»; se, con Castoriadis, «une fois que la psyché a subi la rupture de son “état” monadique, que lui imposent l’”objet”, l’autre et le corps propre, elle est à jamais excentrée par rapport à elle-même, orientée par ce qu’elle n’est plus, qui n’est plus et qui ne peut plus être. La psyché est son propre objet perdu... Cette perte de soi, cette scission par rapport à soi, est le premier travail imposé à la psyché du fait de son inclusion dans le monde». Questo rapporto di sé con sé entro il Sé che s’è è ancora rapportabile al sopraccennato Principio di insufficienza).

Tragicamente, con [benché complessificante e monisticamente inseparata e pulsativamente aiònica] anassimandrica in-giustizia, nell’eterno, magmatico Zero infinito che s’è:

[anche foucaultianamente]
«The price of existence is eternal warfare»
(Aleister Crowley)
Effettivamente, la mia fine, la fine del mondo e la fine senza fine coincidono. In Abraxás: da Abraxás, ad Abraxás.

Abrahadabra.


Geometric Horsehair, Bhairava/i, 2013



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